Prima Predica di Quaresima tenuta dal Predicatore della Casa Pontificia, Card. Raniero Cantalamessa

Alle ore 9 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Predicatore della Casa Pontificia, l’Em.mo Card. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., ha tenuto la prima Predica di Quaresima.

Tema delle meditazioni quaresimali è il seguente: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Matteo 16,15).

Le successive prediche di Quaresima avranno luogo venerdì 1°, 8, 15, e 22 marzo.

Di seguito il testo della Predica

All’inizio di queste prediche di Quaresima, ripartiamo dal dialogo tra Gesú e gli apostoli a Cesarea di Filippo:

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 13-16).

Di tutto il dialogo, ci interessa, in questo momento, solo ed esclusivamente, la seconda domanda di Gesú: “Voi chi dite che io sia?” Non la prendiamo però nel senso con cui quella domanda si intende di solito; come, cioè, se a Gesú interessasse sapere cosa pensa di lui la Chiesa, o cosa i nostri studi di teologia ci dicono di lui. No! Prendiamo quella domanda come va presa ogni parola uscita dalla bocca di Gesú, e cioè come rivolta, hic et nunc, a chi l’ascolta, singolarmente, personalmente.

Per realizzare questo esame, ci faremo aiutare dall’evangelista Giovanni. Nel suo Vangelo troviamo tutta una serie di dichiarazioni di Gesú, i famosi, Ego eimi, “Io Sono”, con i quali egli rivela cosa pensa, lui, di se stesso, chi dice, lui, di essere: “Io sono il pane della vita”, “Io sono la luce del mondo”, e così via. Passeremo in rassegna cinque di queste auto-rivelazioni e ci domanderemo ogni volta se egli è davvero per noi quello che lui dice di essere e come fare perché lo sia sempre di più.

Sarà un momento da vivere in modo particolare. Non, cioè, con lo sguardo rivolto all’esterno, ai problemi del mondo e della stessa Chiesa, come si è costretti a fare in altri contesti, ma con uno sguardo introspettivo. Un momento, allora, intimistico e distaccato e perciò, tutto sommato, egoistico? Tutt’altro! È un evangelizzarci per evangelizzare, un riempirci di Gesú per parlarne “per ridondanza d’amore”, come le primitive Costituzioni del mio Ordine Cappuccino raccomandavano ai predicatori; cioè per intima convinzione, non solo per assolvere un mandato.

* * *

Iniziamo dal primo di questi “Io Sono” di Gesú che incontriamo nel Quarto Vangelo, al capitolo sesto: “Io sono il pane della vita”. Ascoltiamo anzitutto la parte del brano che più direttamente ci interessa:

Gli dissero: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo”. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”. Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! (Gv 6, 30-35).

Un parola sul contesto. Gesú ha in precedenza moltiplicato i cinque pani d’orzo e i due pesci per sfamare cinque mila uomini. Poi si è eclissato per sfuggire all’entusiasmo della gente che vuole farlo re. La folla lo cerca e lo ritrova dall’altra sponda del lago.

A questo punto comincia il lungo discorso con cui Gesú cerca di spiegare “il segno del pane”. Vuole far capire che c’è un altro pane da ricercare, di cui quello materiale è, appunto, un “segno”. È lo stesso procedimento usato con la donna Samaritana nel capitolo IV del Vangelo. Lì Gesú vuole condurre la donna a scoprire un’altra acqua, oltre quella fisica che disseta solo per un breve tempo; qui vuole condurre la folla a cercare un altro pane, diverso da quello materiale che sazia per un solo giorno. Alla Sammaritana che chiede di avere quell’acqua misteriosa e aspetta la venuta del Messia per ottenerla, Gesú risponde: “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26). Alla folla che pone ora la stessa domanda per il pane, risponde: “Io Sono il pane della vita!”

Ci domandiamo: come e dove si mangia questo pane della vita? La risposta dei Padri della Chiesa era: in due “luoghi” o due modi: nel sacramento e nella Parola, cioè nell’Eucarestia e nella Scrittura. C’erano, è vero, accentuazioni diverse. Qualcuno, come Origene e tra i latini Ambrogio, insistono di più sulla Parola di Dio. “Questo pane che Gesù spezza — scrive sant’Ambrogio commentando la moltiplicazione dei pani — si¬gnifica misticamente la parola di Dio che distribuita si accresce. Egli ci ha dato le sue parole come dei pani che si moltiplicano nella nostra bocca mentre li gustiamo” . Altri, come Cirillo Alessandrino accentuano l’interpretazione eucaristica. Nessuno di essi, però, ha inteso parlare di un modo, con esclusione dell’altro. Si parla della Parola e dell’Eucaristia, come delle “due mense” imbandite da Cristo. Nella Imitazione di Cristo si legge:

Di due cose riconosco di avere bisogno: cioè di alimento e di luce. E a me, che sono tanto debole, tu hai dato, appunto come cibo il tuo santo corpo, e come lume hai posto dinanzi ai miei piedi “la tua parola” (Sal 118,105). Poiché la parola di Dio è luce dell’anima e il tuo Sacramento è pane di vita, non potrei vivere santamente se mi mancassero queste due cose. Esse potrebbero essere intese come le “due mense” poste da una parte e dall’altra nel prezioso tempio della santa Chiesa.

L’affermazione unilaterale di uno di questi due modi di mangiare il pane della vita con esclusione dell’altro è frutto della nefasta divisione avvenuta nel cristianesimo occidentale. Da parte cattolica, aveva finito per divenire talmente preponderante l’interpretazione eucaristica da fare del capitolo sesto di Giovanni quasi l’equivalente del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. Lutero, per reazione, affermò l’opposto e cioè che il pane della vita è la parola di Dio; esso viene distribuito mediante la predicazione e mangiato mediante la fede .

Il clima ecumenico che si è instaurato tra i credenti in Cristo ci permette di ricomporre la sintesi tradizionale presente nei Padri. Non c’è dubbio che il pane della vita giunge a noi attraverso la parola di Dio e in particolare le parole di Gesú nel Vangelo. Ce lo ricorda anche la sua risposta al tentatore: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Ma come non vedere nel discorso di Gesú nella sinagoga di Cafarnao anche un riferimento all’Eucaristia? Tutto il contesto evoca un banchetto: si parla di cibo e di bevanda, di mangiare e di bere, del corpo e del sangue. Le parole: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue…” ricordano troppo da vicino le parole dell’istituzione (“Prendete, mangiate, questo è il mio corpo” e “Prendete bevete: questo è il mio sangue”) per potere negare ogni relazione tra di esse.

Se nell’esegesi e in teologia si assiste a una polarizzazione e a volte – dicevo – a una contrapposizione tra il pane della parola e quello eucaristico, nella liturgia la loro sintesi è stata sempre vissuta pacificamente. Fin dai tempi più remoti, per esempio in san Giustino Martire, la Messa comprende due momenti: la liturgia della Parola, con letture tratte dall’Antico Testamento e dalle “memorie degli apostoli”, e la liturgia eucaristica con la consacrazione e la comunione.

Oggi possiamo ritornare, dicevo, alla sintesi originaria tra Parola e Sacramento. In questa linea dobbiamo, anzi, fare un passo avanti. Esso consiste nel non limitare il mangiare la carne e bere il sangue di Cristo alla sola Parola e al solo sacramento dell’Eucaristia, ma nel vederlo attuato in ogni momento e aspetto della nostra vita di grazia.

Quando san Paolo scrive: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21), non pensa a un momento particolare. Per lui, Cristo è davvero, in tutti i modi della sua presenza, pane della vita; lo si “mangia” con la fede, la speranza e la carità, nella preghiera e in tutto. L’essere umano è creato per la gioia e non può vivere senza gioia, o senza la speranza di essa. La gioia è il pane del cuore. E anche la vera gioia l’Apostolo la cerca –ed esorta i suoi a cercarla – nel Signore Gesú Cristo: “Gaudete in Domino semper, iterum dico, gaudete”: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti” (Fil 4,4).

Gesú è pane di vita eterna non solo per quello che dà, ma anche – e prima di tutto – per quello che è. La Parola e il Sacramento sono i mezzi; vivere di lui e in lui è il fine: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me” (Gv 6,57). Nell’inno Adoro te devote che ha alimentato per secoli la pietà e l’adorazione eucaristica dei cattolici, c’è una strofa che è una parafrasi di questa parola di Gesú. Nell’originale che molti di noi certamente ricordano, essa suona così:

O memoriále mortis Dómini,

Panis vivus vitam praestans hómini,

praesta meae menti de te vívere,

et te illi semper dulce sápere.

In Italiano essa si può tradurre così

O memoriale della morte del Signore

Pane vivo che dà vita al mondo,

fa’ che di te io viva

e gusti la dolcezza che da te deriva

* * *

Tutto il discorso di Gesù tende, dunque, a chiarire che vita è quella che egli dà: non vita della carne, ma vita dello Spirito, la vita eterna. Non è però su questa linea che vorrei proseguire la mia riflessione, nei pochi minuti che mi restano. Nei confronti del Vangelo ci sono sempre due operazioni da fare, rispettando rigorosamente il loro ordine: prima l’appropriazione, poi l’imitazione. Ci siamo finora appropriati del pane della vita mediante la fede e lo facciamo ogni volta che riceviamo la Comunione. Si tratta di vedere ora come tradurli in pratica nella nostra vita.

Per fare questo, ci poniamo una semplice domanda: Come è diventato, lui, Gesú, pane di vita per noi? La risposta ce l’ha data lui stesso e proprio nel Vangelo di Giovanni: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Sappiamo bene a che cosa alludono le immagini di cadere in terra e marcire. Tutta la storia della Passione è racchiusa in esse. Dobbiamo cercare di vedere cosa quelle immagini significano per noi. Gesú infatti con l’immagine sul chicco di grano non indica soltanto il suo destino personale, ma quello di ogni suo vero discepolo.

Non si può ascoltare la parola indirizzata dal vescovo Ignazio di Antiochia alla Chiesa di Roma senza commuoversi e senza rimanere stupiti, vedendo che cosa è capace di fare, di una creatura umana, la grazia di Cristo:

Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali io possa raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e [devo essere] macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. … Pregate il Signore per me perché con loro mezzo diventi vittima per Dio. Non vi comando come [facevano Pietro e Paolo]: essi erano apostoli, io un condannato .

Prima dei denti delle fiere, il vescovo Ignazio ha sperimentato altri denti che lo trituravano, non denti di fiere, ma di uomini: “ Dalla Siria sino a Roma –scrive – combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati che da me beneficati diventano peggiori” . Questo ha qualcosa da dire anche a noi. Ognuno di noi ha, nel suo ambiente, di questi denti di fiere che lo macinano. Sant’Agostino diceva che noi esseri umani siamo “vasi di creta, che si feriscono l’uno con l’altro”: lutea vasa quae faciunt invicem angustias. Dobbiamo imparare a fare di questa situazione un mezzo di santificazione e non di indurimento del cuore, di astio e di lamentela!

Una massima spesso ripetuta nelle nostre comunità religiose dice Vita communis mortificatio maxima: “vivere in comunità è la più grande di tutte le mortificazioni”. Non solo la più grande, ma anche la più utile e più meritoria di tante altre mortificazioni di propria scelta. Questa massima non si applica solo a chi vive in comunità religiose, ma in ogni convivenza umana. Dove essa si realizza nel modo più esigente è, a mio parere, il matrimonio, e bisogna essere pieni di ammirazione davanti a un matrimonio portato avanti con fedeltà fino alla morte. Passare la vita intera, giorno e notte, facendo i conti con la volontà, il carattere, la sensibilità e le idiosincrasie di un’altra persona, specialmente in una società come la nostra, è qualcosa di grande e, se fatto con spirito di fede, andrebbe già qualificato come “virtù eroica”.

Noi, però, ci troviamo qui nel contesto della Curia che non è una comunità religiosa o matrimoniale, ma di servizio e di lavoro ecclesiale. Le occasioni da non sciupare, se vogliamo essere anche noi macinati per diventare farina di Dio, sono tante, e ognuno deve identificare e santificare quella che gli si offre nel suo posto di servizio. Ne nomino solo una o due che ritengo valide per tutti.

Una occasione è accettare di essere contraddetti, rinunciare a giustificarsi e volere aver sempre ragione, quando ciò non è richiesto dall’importanza della cosa. Un’altra è sopportare qualcuno, il cui carattere, modo di parlare o di fare ci dà sui nervi, e farlo senza irritarci interiormente, pensando, piuttosto, che anche noi siamo forse per qualcuno una tale persona. L’Apostolo esortava i fedeli di Colossi con queste parole: “Rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro (Col 3, 12-13). Ciò che è più difficile da “triturare” in noi non è la carne, ma lo spirito, cioè l’amor proprio e l’orgoglio, e questi piccoli esercizi servono magnificamente allo scopo.

Oggi esiste purtroppo nella società una specie di denti che triturano senza pietà, più crudelmente dei denti di leopardo di cui parlava il martire sant’Ignazio. Sono i denti dei media e dei cosiddetti social. Non quando essi rilevano le storture della società o della Chiesa (in ciò meritano tutto il rispetto e la stima!), ma quando si accaniscono contro qualcuno per partito preso, semplicemente perché non appartiene al proprio schieramento. Con cattiveria, con intento distruttivo, non costruttivo. Povero chi finisce oggi in questo tritacarne, sia egli un laico o un ecclesiastico!

In questo caso, è lecito e doveroso far valere le proprie ragioni nelle sedi appropriate, e se ciò non è possibile, oppure si vede che non serve a nulla, non resta a un credente che unirsi a Cristo flagellato, coronato di spine e a cui hanno sputato addosso. Nella Lettera agli Ebrei si legge questa esortazione ai primi cristiani che può aiutare in simili occasioni: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Ebr 12,3).

È una cosa difficile e dolorosa al massimo, soprattutto se ne va di mezzo la propria famiglia naturale o religiosa, ma la grazia di Dio può fare –e spesso ha fatto – di tutto ciò occasione di purificazione e di santificazione. Si tratta di avere fiducia che, alla fine, come avvenne per Gesú, la verità trionferà sulla menzogna. E trionferà meglio, forse, con il silenzio che con le più agguerrite autodifese.

* * *

Lo scopo finale del lasciarsi macinare non è però di natura ascetica, ma mistica; non serve tanto a mortificare se stessi, quanto a creare la comunione. È una verità, questa, che ha accompagnato la catechesi eucaristica fin dai primi giorni della Chiesa. È presente già nella Didaché (IX,4), uno scritto dei tempi apostolici. Sant’Agostino sviluppa questo tema in modo stupendo in un suo discorso al popolo. Egli mette in parallelo il processo che porta alla formazione del pane che è il corpo eucaristico di Cristo e il processo che porta alla formazione del suo corpo mistico che è la Chiesa. Diceva:

Ricordate un istante cosa era una volta, quand’era ancora nel campo, questa creatura che è il grano: la terra la fece germogliare, la pioggia la nutrì; poi ci fu il lavoro dell’uomo che la recò sull’aia, la trebbiò, la vagliò e la ripose nei granai; da qui la prelevò per macinarla e cuocerla e così, finalmente, diventò pane. Adesso ripensate a voi stessi: non eravate e foste creati, siete stati recati sull’aia del Signore, siete stati trebbiati…Quando avete dato i vostri nomi per il battesimo, cominciaste a essere macinati dai digiuni e dagli esorcismi; poi finalmente siete venuti all’acqua, siete stati impastati e siete diventati una cosa sola; sopravvenendo il fuoco dello Spirito Santo, siete stati cotti e siete diventati pane del Signore. Ecco quello che avete ricevuto. Come, dunque, vedete che è uno il pane preparato, così siate anche voi una cosa sola, amandovi, conservando la stessa fede, una stessa speranza e indivisa carità” .

Tra i due corpi –quello eucaristico e quello mistico della Chiesa – non c’è solo somiglianza, ma anche dipendenza. È grazie al mistero pasquale di Cristo operante nell’Eucaristia, che noi possiamo trovare la forza di lasciarci macinare, giorno per giorno, nelle piccole (e a volte nelle grandi!) circostanze della vita.

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Termino con un episodio realmente accaduto, narrato in un libro intitolato “Il prezzo da pagare”, scritto in Francese e tradotto in diverse lingue. Esso serve, meglio di lunghi discorsi, a rendersi conto della potenza racchiusa nei solenni “Io Sono” di Gesú nel Vangelo e in particolare di quello che ho commentato in questa prima meditazione.

Alcuni decenni fa, in una nazione del Medio Oriente, due soldati – uno cristiano e l’altro no – si trovavano insieme a fare da sentinelle a un deposito di armi. Il cristiano tirava spesso fuori, talvolta anche di notte, un piccolo libro e lo leggeva, attirando la curiosità e l’ironia del compagno d’armi. Una notte, quest’ultimo fa un sogno. Si trova davanti a un torrente che però non riesce ad attraversare. Vede una figura avvolta di luce che gli dice: “Per attraversarlo, hai bisogno del pane della vita”. Fortemente impressionato dal sogno, al mattino, senza sapere perché, chiede, anzi costringe, il compagno a dargli quel suo libro misterioso. (Si trattava naturalmente dei Vangeli). Lo apre e cade sul vangelo di Giovanni. L’amico cristiano gli consiglia di cominciare con quello di Matteo che è più facile da capire. Ma lui, senza sapere perché, insiste. Legge tutto d’un fiato, finché giunge al capitolo sesto. Ma a questo punto è bene ascoltare direttamente il suo racconto:

Giunto al capitolo sesto mi fermo, colpito dalla forza di una frase. Per un attimo penso di essere vittima di un’allucinazione, e rimetto gli occhi sul libro, nel punto dove mi sono arrestato… Ho appena letto queste parole: “…il pane della vita”. Le stesse parole che ho udito qualche ora fa nel mio sogno. Rileggo lentamente il passaggio nel quale Gesú, rivolgendosi ai discepoli, dice: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame”. Si scatena in me, proprio in quell’istante, qualcosa di straordinario, come un’esplosione di calore e di benessere… Ho l’impressione di venire rapito, portato in alto dalla forza di un sentimento mai provato, una passione violenta, un amore smisurato per quest’uomo Gesú di cui parlano i Vangeli” .

Quello che, in seguito, questa persona ha dovuto soffrire per la sua fede conferma l’autenticità della sua esperienza. Non sempre la parola di Dio agisce in un modo così esplosivo, ma l’esempio, ripeto, ci mostra quale forza divina è racchiusa nei solenni “Io Sono” di Cristo che con la grazia di Dio ci ripromettiamo di commentare in questa Quaresima.

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