Il Papa: La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno

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Questo è il paradosso cristiano: Dio salva non facendo, ma lasciandosi fare. Non vincendo il male con la forza, ma accettando fino in fondo la debolezza dell’amore. Sulla croce, Gesù ci insegna che l’uomo non si realizza nel potere, ma nell’apertura fiduciosa all’altro, persino quando ci è ostile e nemico. La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno e nel saperlo liberamente esprimere.

Il compimento della nostra umanità nel disegno di Dio non è un atto di forza, ma un gesto di fiducia. Gesù non salva con un colpo di scena, ma chiedendo qualcosa che da solo non può darsi. E qui si apre una porta sulla vera speranza: se anche il Figlio di Dio ha scelto di non bastare a sé stesso, allora anche la nostra sete – di amore, di senso, di giustizia – non è un segno di fallimento, ma di verità.

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.00 in Piazza San Pietro dove Papa Leone XIV ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa – riprendendo il ciclo di catechesi che si svolge lungo l’intero Anno Giubilare, “Gesù Cristo nostra speranza” – ha incentrato la sua meditazione sul tema La crocifissione. «Ho sete» (Gv 19,28).

Dopo aver riassunto la Sua catechesi nelle diverse lingue, il Santo Padre ha indirizzato particolari espressioni di saluto ai fedeli presenti. Quindi, ha rivolto un appello “ai responsabili e alla comunità internazionale, affinché siano garantiti corridoi umanitari e si attui una risposta coordinata” per fermare la catastrofe umanitaria nel Darfur, in Sudan, in seguito ad una frana devastante che ha causato moltissimi morti e al conflitto ancora in corso nel Paese.

L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 5. La crocifissione. «Ho sete» (Gv 19,28)

Cari fratelli e sorelle,

nel cuore del racconto della passione, nel momento più luminoso e insieme più tenebroso della vita di Gesù, il Vangelo di Giovanni ci consegna due parole che racchiudono un mistero immenso: «Ho sete» (19,28), e subito dopo: «È compiuto» (19,30). Parole ultime, ma cariche di una vita intera, che svelano il senso di tutta l’esistenza del Figlio di Dio. Sulla croce, Gesù non appare come un eroe vittorioso, ma come un mendicante d’amore. Non proclama, non condanna, non si difende. Chiede, umilmente, ciò che da solo non può in alcun modo darsi.

La sete del Crocifisso non è soltanto il bisogno fisiologico di un corpo straziato. È anche, e soprattutto, espressione di un desiderio profondo: quello di amore, di relazione, di comunione. È il grido silenzioso di un Dio che, avendo voluto condividere tutto della nostra condizione umana, si lascia attraversare anche da questa sete. Un Dio che non si vergogna di mendicare un sorso, perché in quel gesto ci dice che l’amore, per essere vero, deve anche imparare a chiedere e non solo a dare.

Ho sete, dice Gesù, e in questo modo manifesta la sua umanità e anche la nostra. Nessuno di noi può bastare a sé stesso. Nessuno può salvarsi da solo. La vita si “compie” non quando siamo forti, ma quando impariamo a ricevere. E proprio in quel momento, dopo aver ricevuto da mani estranee una spugna imbevuta di aceto, Gesù proclama: È compiuto. L’amore si è fatto bisognoso, e proprio per questo ha portato a termine la sua opera.

Questo è il paradosso cristiano: Dio salva non facendo, ma lasciandosi fare. Non vincendo il male con la forza, ma accettando fino in fondo la debolezza dell’amore. Sulla croce, Gesù ci insegna che l’uomo non si realizza nel potere, ma nell’apertura fiduciosa all’altro, persino quando ci è ostile e nemico. La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno e nel saperlo liberamente esprimere.

Il compimento della nostra umanità nel disegno di Dio non è un atto di forza, ma un gesto di fiducia. Gesù non salva con un colpo di scena, ma chiedendo qualcosa che da solo non può darsi. E qui si apre una porta sulla vera speranza: se anche il Figlio di Dio ha scelto di non bastare a sé stesso, allora anche la nostra sete – di amore, di senso, di giustizia – non è un segno di fallimento, ma di verità.

Questa verità, apparentemente così semplice, è difficile da accogliere. Viviamo in un tempo che premia l’autosufficienza, l’efficienza, la prestazione. Eppure, il Vangelo ci mostra che la misura della nostra umanità non è data da ciò che possiamo conquistare, ma dalla capacità di lasciarci amare e, quando serve, anche aiutare.

Gesù ci salva mostrandoci che chiedere non è indegno, ma liberante. È la via per uscire dal nascondimento del peccato, per rientrare nello spazio della comunione. Fin dall’inizio, il peccato ha generato vergogna. Ma il perdono, quello vero, nasce quando possiamo guardare in faccia il nostro bisogno e non temere più di essere rifiutati.

La sete di Gesù sulla croce è allora anche la nostra. È il grido dell’umanità ferita che cerca ancora acqua viva. E questa sete non ci allontana da Dio, piuttosto ci unisce a Lui. Se abbiamo il coraggio di riconoscerla, possiamo scoprire che anche la nostra fragilità è un ponte verso il cielo. Proprio nel chiedere – non nel possedere – si apre una via di libertà perché smettiamo di pretendere di bastare a noi stessi.

Nella fraternità, nella vita semplice, nell’arte di domandare senza vergogna e di offrire senza calcolo, si nasconde una gioia che il mondo non conosce. Una gioia che ci restituisce alla verità originaria del nostro essere: siamo creature fatte per donare e ricevere l’amore.

Cari fratelli e sorelle, nella sete di Cristo possiamo riconoscere tutta la nostra sete. E imparare che non c’è nulla di più umano, nulla di più divino, del saper dire: ho bisogno. Non temiamo di chiedere, soprattutto quando ci sembra di non meritarlo. Non vergogniamoci di tendere la mano. È proprio lì, in quel gesto umile, che si nasconde la salvezza.

APPELLO

Dal Sudan, in particolare dal Darfur, giungono notizie drammatiche. A El Fasher, numerosi civili sono intrappolati nella città, vittime di carestia e violenze. A Tarasin, una frana devastante ha causato moltissimi morti, lasciando dietro di sé dolore e disperazione. E, come se non bastasse, la diffusione del colera minaccia centinaia di migliaia di persone già stremate. Sono più che mai vicino alla popolazione sudanese, in particolare alle famiglie, ai bambini e agli sfollati. Prego per tutte le vittime. Rivolgo un appello accorato ai responsabili e alla comunità internazionale, affinché siano garantiti corridoi umanitari e si attui una risposta coordinata per fermare questa catastrofe umanitaria. È tempo di avviare un dialogo serio, sincero e inclusivo tra le parti, per porre fine al conflitto e restituire al popolo del Sudan speranza, dignità e pace.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli della Diocesi di Mantova, con il Vescovo Mons. Mario Busca e i fedeli dell’Arcidiocesi di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, con l’Arcivescovo Mons. Giovanni Accolla e il Vescovo Ausiliare. Cari fratelli e sorelle, auspico che il vostro pellegrinaggio giubilare possa essere un intenso momento di comunione con Dio; nel tornare alle vostre case vi sentirete così rafforzati nella fede e spronati nel fare il bene.

Saluto poi i diversi gruppi parrocchiali, specialmente quelli di Carinaro, Ogliara, Lamporecchio e Cologno al Serio, incoraggiando le rispettive comunità ad aprirsi sempre più alla vita nuova che è Cristo.

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi celebriamo la memoria liturgica di San Gregorio Magno, il cui corpo riposa nella Basilica di San Pietro. Questo Papa è detto “il grande” per la sua eccezionale attività di pastore e maestro di fede in tempi assai difficili per la società e la Chiesa: una “grandezza” che attingeva forza dalla fiducia nel Cristo. Auguro a ciascuno di voi di riconoscere nel Signore l’unica vera forza dell’esistenza.

A tutti la mia benedizione!

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